17/06/2017
Messaggeri Erranti
Tra le colline verdeggianti dell’Etruria senese, nei pressi di Chiusi, si trova l’antica Tenuta Dolciano, risalente XVIII secolo. Già dimora di Francesco I dei Medici diviene, dal 1777, proprietà del Granduca di Toscana Leopoldo II Asburgo Lorena che, oltre ad ampliare e ristrutturare l’intero complesso, arricchisce il bellissimo parco all’italiana con una chiesa dedicata a San Leopoldo, la cui edificazione risale al 1825. Entrare in questa Tenuta è come immergersi nel passato. Magici spazi espositivi si offrono allo sguardo dei visitatori ed è in uno di questi che i tre artisti David Petri, Roberta Betti e Marco Bianchi, hanno pensato di allestire una mostra, sostenuti fortemente da Andrea Bologna, erede della storica famiglia che dal 1864 ne ha assunto la proprietà. Così, avvolti dalle antiche vibrazioni che aleggiano nell’aria e sostenuti dalle presenze enigmatiche di reminiscenze etrusche, si scende nei meandri sotterranei dell’abitato, nell’area delle vecchie cantine, dove il terreno trasuda di memoria e la pietra ricorda quei primi abitanti che sostenuti dalla sola forza delle braccia seppero costruire questa immortale meraviglia. Sembra quasi di scendere nell’antro di una caverna in cui lontani segreti sono in attesa di essere svelati, ma a ben vedere l’unico mistero nascosto è quello dell’arte, istinto remoto che nel corso dei millenni ha condotto l’uomo verso la comprensione della bellezza. Un ventre incuneato nelle viscere della terra, quasi ricordando l’oscurità dell’antro materno in cui prende forma la vita, un luogo oscuro da cui tutti siamo chiamati a uscire per “riveder le stelle”. A questa metafora sembra perfettamente aderire lo spazio espositivo della villa, conducendo la mostra di David Petri, Roberta Betti e Marco Bianchi a porsi come un cammino di anime erranti: una catarsi nell’interiorità umana per giungere all’uscita verso la luce pronti a immergersi nell’esperienza della vita. Direttamente dal passato affiora la pittura di David Petri. Artista di Città della Pieve padrone di un linguaggio che affonda le radici nella più intima cultura italiana ed europea. Un’arte d’altri tempi dove, attraverso figure partorite dal grembo della grande tradizione medievale, ricorda l’espressività gotica di maestri come Simone Martini o Pietro Lorenzetti, come pure la delicatezza di un Antonello da Messina. Petri si presenta nei panni di un colto anacronista dalla struggente sensibilità espressiva, capace di proiettarci nel bel mezzo di un passato ancora fortemente presente: gli sguardi ammiccanti, i lunghi abiti simili a tonache, le barbe, gli arabeschi e gli strumenti lignei, tutto parla la lingua di un tempo che fu, ma che ancora fortemente riecheggia fra le mura medievali delle città umbre. Proprio come la sua Città della Pieve, arroccata sullo sperone che sovrasta la Val di Chiana, da un lato, mentre digrada più dolcemente verso il Trasimeno dall’altro. Luogo di storia e d’arte, città natale di Pietro Vannucci, il Perugino, e testimone nel tempo di quella rivoluzione artistica che giungendo a maturazione a Firenze portava l’arte italiana dall’emotività medievale alla razionalità rinascimentale. Eppure Petri sembra legato proprio al versante sentimentale, dove la pittura narra di personaggi al limite del grottesco – un monaco predicatore, dei saltimbanchi, una natività – rimarcando, per certi aspetti, quel medioevo che lo stesso Pasolini interpretava prelevando personaggi del popolo, poco gradevoli a volte, ma poeticamente veri e sinceri nel loro vestirsi soltanto di se stessi. Da qui l’onestà artistica di Petri, innamorato della storia, medievale certamente, ma anche della grande stagione manierista con riferimenti a Pontormo e Parmigianino, fino a giungere ad accenni di Realismo magico su contemporanei come Felice Casorati. Riferimenti sui quali fondare la propria cifra stilistica, ambendo al lavoro su commissione proprio come si faceva in quegli anni definiti bui, ma che a ben vedere erano altresì ricchi di luce e spiritualità. Con Roberta Betti si viene proiettati nel segreto delle introspezioni: non c’è più il riferimento alla figura, restando solo il senso interiore di una pittura costruita con pennellate decise. Il contrasto tra la superficie nera e le fenditure aperte su tonalità rosso-arancio sembra comunicare l’energia segreta della Terra interpretata come metafora esistenziale e capace di esaltare il culto delle passioni. Dai vortici scaturisce una forza trascinatrice espressa nelle linee concentriche incise sulla tela. Il tema dell’interiorità non viene comunicato come epifania di rivelazione, ma destino inevitabile che coinvolge l’artista e lo spettatore. È il gesto a divenire opera, l’insistenza ossessiva del graffiare la superficie sprofondando in un maelstrom inesorabile al cui fondo “borbotta”, come una caldera magmatica, il rosso delle passioni in cui tutti sono destinati a cadere. Una narrazione più spesso evidenziata nella costruzione di alfabeti geroglifici frutto di una creatività inconscia e istintiva. Ma graffiare la tela significa far emergere la luce dall’oscurità, squarciare il velo opaco del tempo per approdare nelle lande della purezza. Così il lavoro di Roberta Betti s’incunea nel percorso opposto, caratterizzandosi per opere interamente bianche, dove tutto è esclusivamente luce: dove non c’è più bisogno di scavare. Il bianco accoglie l’intero spettro cromatico, mostrandosi come assenza carica di presenza. Un non-colore, un silenzio tonale la cui vera voce si svela nella meraviglia dell’arcobaleno tramutando quel silenzio in un suono celestiale. Dalle passioni dell’anima la sua pittura ci conduce verso la riflessione filosofica sul rapporto tra presenza e assenza, in un costante rimando fra dentro e fuori, spirito e materia, luce e oscurità. La luce è l’ambito metafisico in cui vivono i soggetti di Marco Bianchi, privi di individualità e idealizzati in forme sintetiche e scarne, quasi a ricordare l’essenza comunicativa dei graffiti. Uomini e animali tradotti in ambientazioni astratte organizzate geometricamente a rimarcare l’assenza di tempo e luogo, ma non di spazio. Quest’ultimo è infatti presente come insistenza reiterata verso strutture o gabbie in cui l’umanità è confinata, ma l’impossibilità di contestualizzarne un luogo specifico induce l’osservatore a generalizzarne la presenza verso una percezione della realtà inesorabilmente astratta. Da qui l’aspetto ludico delle figure che vivono sospese al di là del tempo, in un disincanto spiazzante, ma consapevoli del proprio esistere. La luce è il colore, che gioca vivacemente nell’insieme dei lavori alternandosi fra caldo e freddo in un caleidoscopio di effetti stranianti dove a volte certi esseri richiamano la dimensione del sogno, come la balena azzurra dell’opera Oceano che galleggia sospesa nell’indeterminatezza dello sfondo cromatico. Ecco emergere il tema del graffito, richiamo ai primordi arcani dell’uomo: quando tutto era sacro poiché mistero inspiegabile. La pittura di Bianchi sembra per questo ricordarci come, a distanza di milioni di anni, le innumerevoli conquiste umane non abbiano al fine risolto il problema più profondo dell’esistere: vivere in relazione spirituale con l’intero universo secondo regole semplici ed essenziali. Ecco allora queste figure esili stagliarsi con la curiosità del fanciullo che parimenti all’uomo delle caverne si pone con stupore e meraviglia verso il Creato, senza sapere cosa significhi, ma sospinto solo dalla grande meraviglia dell’esistere. Ecco il cammino dell’arte giungere alla più completa manifestazione, annullando la cecità dell’uomo e spingendo l’essere verso la conquista del sé. Andrea Baffoni